La Regina del cibo di strada

di FornellidItalia

La Regina del cibo di strada

La Porchetta

Soprattutto nella stagione estiva, dove il panino fuori porta è un momento di piacevole aggregazione nelle località di vacanza come in città, la porchetta ha però origini lontane, che la fanno risalire fino all’epoca etrusca. In verità, il divin porcello è sempre stato al centro di attenzioni diverse. Dai riti sacrificali dedicati agli Dei così come, via via, lo si trova, acconciato diversamente nelle presentazioni, ma non nella golosa sostanza, alle tavole del popolo come a quelle dei nobili per arrivarea noi, attrezzati di apemobili e streetfurgoni nel corso dei vari festival al cibo di strada dedicati.

Una dietrologia

Iniziò Apicio a raccontare delle varie preparazioni che ci si poteva inventare con il maialetto arrostito (o allo spiedo con gli esemplari più adulti). Molte le varietà a seconda della dotazione di cui si farciva il ventre, svuotato delle sue interiora. La versione più nobile era quella a doppia farcitura: sottopelle un misto di pepe, bacche d’alloro, garum, vincotto, olio e poi nella cavità dello stomaco dove ci potevano stare cervella cotte, uova crude, uccellini, pinoli. Ma vi erano molte altre varianti. C’era chi assemblava, oltre alle uova, altre carni, pure di vitello, come beccafichi, finocchio, ma anche pinoli, tordi, datteri, chiocciole sgusciate e via banchettando. La vulgata lo descriveva come Porcus troianus, a memoria del famoso cavallo utilizzato da Ulisse per espugnare la città, come descritto da Virgilio, solo che qua, al massimo, si attentava a tassi di colesterolo tutti da dimostrare.

Nel Medioevo il maiale mantenne il suo status di animale prediletto dal popolo in quanto il suo allevamento era tutto sommato agevole, bastava governare le bestie allo stato brado tanto che il valore di un bosco veniva stabilito in base al numero di maiali che vi si poteva allevare. Maiale che copriva tutta la stagione alimentare, con le sue carni consumate fresche, al momento della mattanza, nel periodo invernale e, per il resto del calendario, ci pensavano le numerose elaborazioni degli insaccati. La stagione estiva, invece, vedeva prevalere il maiale passato al forno, il quale poteva essere quello del fornaio stesso (in maniera tale da tenere attive per 24 ore le braci con cui si confezionava il pane) come è vero che erano molti anche gli stessi macellai ad avere in dotazione un piccolo forno per trattare il maiale.

Una triade virtuosa, quella tra porchetta, macellaio e panettiere che, come vedremo, incontreremo ancora. La prima testimonianza della Porchetta come protagonista della cultura materiale di una comunità la si trova a Bologna dove, dal 1254 al 1796, si è tenuta la Festa di San Bartolomeo il 24 agosto. Nata per festeggiare la cacciata di Re Enzo, figlio di Federico II, che era venuto per combattere le città guelfe, era un evento che si sviluppava con tutti i crismi dell’epoca medioevale con tanto di palio per i cavalieri in cui, al secondo classificato, veniva regalata un porchetta. Porchetta che poi, agghindata con la corona d’alloro, veniva gettata, assieme ad altra selvaggina, dalla ringhiera del palazzo degli anziani al popolo, che se ne disputava con ferocia (cosa poteva la fame) brandelli di quanto riusciva a raccogliere.  E porchetta che, nel tempo, ha continuato ad essere regina dei banchetti principeschi e cardinalizi, tanto che Martino de’ Rossi, il cuoco del Patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan, detto anche “Cardinal Lucullo”, codificò per primo in una ricetta ripresa poi da Bartolomeo Sacchi (“Il Platina”) il quale, oltre ad essere Direttore della Biblioteca Pontificia, gettò le basi dei moderni trattati di gastronomia con il suo “De honesta voluptate et valetitudine”, uscito nel 1474.

L’epoca rinascimentale che vide il trionfo dei banchetti della nobiltà come della nuova borghesia mercantile. Innumerevoli gli esempi di elaborazione del maiale passato al forno con farciture diverse. Proposto con le anguille, posto che da sempre le si sono considerate il maiale del mare, per la grassa succulenza delle carni, ma anche la porchetta ai maccheroni che lasciò sul suo cammino una serie di palati infranti (mista oltre che all’immancabile formaggio, con pepe, cervella trite, prosciutto), così come la porchetta alla corradina (con carni di vitello, parmigiano, fette di tartufi e uova) per arrivare infine alla Romana ovvero “condita” nei suoi interni, oltre che con il sale e pepe di prammatica, con soli rami di rosmarino. Tolta dal forno dopo circa quattro ore di cottura essa riluce di un’intrigante cotenna divenuta nel frattempo rossa e croccante.

Il confine tra finocchietto selvatico e rosmarino

Su queste basi della porchetta romana si sono poi inserite tutte le varie declinazioni di un prodotto che ha salde tradizioni in tutta l’Italia centrale, con diverse realtà che ne rivendicano la primogenitura anche se, invero, essa non è altro che un’eredità tramandata dall’epoca antica e poi perfezionatasi nei vari territori in base ai locali usi e costumi in tema di materie prime relative, tanto che se tra Castelli romani e Toscana meridionale nella farcitura si privilegia il rosmarino tra Umbria, Marche e Romagna si usa invece il finocchio selvatico.

In letteratura e nelle arti

Talmente radicata nella storia del paese la porchetta non poteva che lasciare tracce a futura memoria nella letteratura e, più tardi, nel cinema come ben descritto da Giovanni Ricciotti nel suo “La Porchetta, una tradizione antica” (Panozzo Editore, 2016). Citata nella “Secchia rapita“, la si ritrova nell’800 descritta come “porcelletto ripieno” da Massimo d’Azeglio a dar gioia monastica ai frati in banchetto. Quegli iconoclasti dei futuristi se nelle loro opere bandirono ogni vestigia di antica tradizione, anche alimentare, eliminarono la pastasciutta ma salvarono la porchetta. Al fascino di questa non si sottrasse nemmeno Pirandello. Tra i vertici di una letteratura forse minore del ‘900, non potè mancare il sommo poeta, ovvero Gabriele d’Annunzio che, nel 1927, “confinato” nella sua reggia di Gardone Riviera, si vide recapitare dall’allora Ministro dell’agricoltura, Giacomo Acerbo, un perfetta porchetta romana confezionata apposta per lui a rinverdire il ricordo dei bei tempi della giovinezza. Fu così che nacque l’ode “La Purchetta d’Oro”. Tuttavia i vertici delle letteratura “porchettara” li ha raggiunti Carlo Emilio Gadda in uno dei suoi romanzi più famosi “Quel pasticciaccio brutto de via Merulana” dove, tra le varie vicende narrate, si descriveva una piazza colma di porchettari che, mentre affilavano i “cortelli”, uno lungo e uno corto, strillavano tentatori “ciavemo la bella porca de Ariccia, con un bosco de rosmarino in de la panza”. Indimenticabili anche i passaggi a lei dedicati da Orio Vergani, giornalista, critico d’arte, fondatore dell’Accademia Italiana della Cucina che, nel gustare una porchetta pochi mesi prima della sua prematura scomparsa, andò a rinvangare “la vecchia Roma di quarant’anni fa e l’appetito dei venti”.

Tracce più recenti le troviamo poi tra le pagine di penne del calibro di Giorgio Saviane (ne “Lo stivale allo spiedo”) o, recentissimo, Marco Malvaldi nel suo “Buchi nella sabbia”. Cultura materiale (la Porchetta) e cultura cinematografica sono andati spesso a braccetto con il cameo più divertente probabilmente legato a “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola (1974) dove un imperturbabile Romolo Catenacci “marchese della cazzuola”, interpretato da Aldo Fabrizi, per festeggiare con le maestranze fa calare da una gru, sul tavolo imbandito, una porchetta avvolta nella bandiera tricolore al suono delle trombe. Così come episodi con la porchetta protagonista (o comprimaria complice) li troviamo pure nel “Satyricon” di Federico Fellini o nel più recente “Una moglie bellissima” di Leonardo Pieraccioni.

Sagre, feste e tavole imbandite

Giunta ai tempi nostri la porchetta è regina delle varie sagre di paese così come nell’ultima moda dei raduni di Street Fooder, i cultori del Cibo di strada. La Sagra più titolata (1950) è quella di Ariccia, patria della porchetta alla romana che, grazie a una disciplinare che si è via via perfezionata dal lontano 1896 è giunta, nel 2011, a conquistarsi il prestigioso traguardo di Indicazione Geografica Protetta (IGP). Anche qui viene ripresa l’antica tradizione bolognese in cui, al culmine della festa, si lanciano alla folla, dai balconi e dai carri allegorici, gustosi panini.

Molte altre le sagre porchettare di rilievo, tra cui quella di San Savino, nell’aretino, dove nel 2010, con l’utilizzo di 65 maiali si è composta la Porchetta da Guinnes, con i suoi 44 metri e 93 centimetri di lunghezza. Su tutte si pone la Sagra delle Sagre così si sono autodefiniti in quel di San Terenziano di Gualdo Cattaneo nel perugino dove, dal 2011, si svolge “Porchettiamo”, una sorta di summa del sapere porchettaro di strada e d’autore e dove, a fine maggio, giungono cuochi globe trotter da diverse regioni, Calabria compresa, con licenza di reinterpretare, secondo gusto ed estro, la ricetta classica. Ecco allora l’umbro Marco Bistarelli vincere il titolo nel 2011 con il suo originale panino con porchetta d’agnello (del quale fegato e coscia si abbinano alla pancia del maiale) o il sardo Mauro Ladu che, poco tempo fa, ha vinto con il suo panino con capocollo di maiale sardo, brasato alla birra, con mirto e crema di ricotta.

Tra le stelle vale ricordare quella, bistellata, di Mauro Uliassi di Senigallia, balzato agli onori della cronaca con il suo panino alla porchetta con porchetta, uno street food d’autore in cui lo stesso panino è stato conciato con il grasso suino per insaporire a mille la già gustosa pietanza. Un’intuizione che, nel primo dopoguerra, avevano già avuto i fratelli Beltrame i quali, a Treviso, proponevano alla golosa clientela quella che si potrebbe definire la “porchetta una e trina”, come ha ricordato Beppo Zoppelli, storico editore e Accademico della Cucina, a proposito di una pratica che vedeva rosolare nel forno contemporaneamente tre porchette (ma rigorosamente di coscia di maiale, cioè prosciutto e qua sta l’originalità della porchetta trevisana), che venivano poi sgrassate e il lardo residuo veniva poi spedito al fornaio Casellato, che così vi impastava i suoi panini. Le cotenne, nel frattempo, venivano sbriciolate e mescolate al sale che poi veniva sparso sul gustoso affettato, prima di esser servito al piatto con il relativo panino.

A conclusione di questo excursus non possiamo non parlare di come il fascino della porchetta abbia colpito l’attenzione – e il palato – dei vari continenti, complici ovviamente i ricordi e le tradizioni dei nostri emigranti. In Canada, a Sudbury, è considerato il piatto tipico della città tanto che vi si svolge un’originale lotteria, il Porchetta Bingo, dove i proventi della vendita vanno destinati in beneficenza. In Australia vi è una catena di 70 locali che propone il meglio della cucina italiana con il richiamo di “Porchetta, eat live love”. Nelle sue inchieste la stampa americana, dal New York Times a Newsweek, ha individuato la porchetta tra le migliori specialità dell’Italian Food se non addirittura una delle cinque cose da assaggiare almeno una vota nella vita tanto che, a New York, Sarah Jenkins, titolare del notissimo “Porchetta”, è considerata un’autentica star.

 * In copertina un frammento di “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola

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